Non possiamo più nasconderlo a noi stessi: ci è mancato – e ci manca – lo stare insieme.
La pandemia ce lo ha fatto toccare con mano, ci ha costretto a prender atto, senza ma e senza se, della nostra natura di esseri relazionali. L’ altro concorre ad e-vocarci a noi stessi, a identificarci. Il nostro statuto ontologico relazionale sottolineando la non-autosufficienza della condizione umana, evidenzia originariamente il paradosso che identifica l’essere umano: ognuno è singolare, ma allo stesso tempo, è plurale.
È un essere-con.
Con l’estate ci siamo tuffati in questa dimensione, con una tale avidità da sembrare ne andasse di mezzo la propria ragion d’essere, la propria identità. Specialmente i giovani- ma non solo i giovani- parevano -e paiono- affamati di con-tatto, di vicinanza fisica, di desiderio estremo quasi esasperato di riprendere e incrementare le vecchie abitudini. Immemori di altro.
Reazione comprensibile dinanzi l’esperienza vissuta dell’isolamento, del vuoto, della non-vita durante la clausura. Una voglia, un bisogno indifferibili di sentirsi vivi, di riaffermare la vita come la conosciamo. Una sorta di ribellione- non proclamata, ma praticata e certamente non riconducibile a un ortodosso rito di passaggio-nei confronti delle norme, delle regole, delle raccomandazioni; di quanto insomma sottraeva intensità di esplosione vitale.
Ma è tutto ciò affermazione di vita?
O non piuttosto fuga dalla vita, disertandola nel momento in cui ci si rifiuta di fare i conti con quanto, in questo tempo, avanza in modo inevadibile e rende esplicita la condizione umana di mancanza, portando alla luce la nostra costitutiva insecuritas, quella insecuritas che di solito ci affanniamo a scansare, riempiendo il tempo di cose da fare, nella convinzione di poter avere tutto – cose, eventi, persone- sotto controllo. E, come tale, scontato, dovuto, posseduto. Ostaggi di un pensiero calcolante, ci si consegna a quella razionalità strumentale che depotenzia il mondo a serbatoio di risorse a disposizione dell’uomo e sottopone anche l’uomo stesso ad analogo trattamento, vedendo in lui solo un insieme di prestazioni e funzioni, la cui utilità si fa misura del suo valore, che scivola sempre più rapidamente nella parzialità, e sostituibilità, di un oggetto.
Ri-conoscere la nostra costitutiva insecuritas, il nostro trovarci in una condizione d’essere e d’esistere tessuta dall’incertezza, dalla vulnerabilità, tale da impedire il pieno governo di sé e delle cose, da smontare senza possibilità di rinvio – come accade oggi- ogni illusione di poter esercitare una sovranità assoluta sugli eventi e, prima ancora, su noi stessi è la sfida lanciata dalla pandemia.
Accettare, anzi accogliere questa sfida, fare amicizia con la nostra condizione di esseri mancanti, non-terminati può rovesciarsi paradossalmente in un di più di vita, nella possibilità di sentirsi pienamente vivi: quella di far luogo e tempo alla presenza di sè a se stessi, della presa in-carico del compito di vivere una vita in prima persona, testimoniando la differenza che il nostro esserci introduce nel mondo.
Non più esposti al ricatto dell’efficienza, alla dipendenza da desideri o bisogni o concettualizzazioni previe si può stare in ascolto del proprio poter e dover essere, lasciar affiorare quelle domande che ci interpellano in profondità, che ci invitano ad esplorare la nostra vita interiore. Domande per le quali non esiste una risposta già confezionata. Domande per le quali non basta una presa d’atto. Occorre una presa di posizione, una presa di consapevolezza del proprio essere per via, nomadi, cui non appartiene l’insediarsi, per possedere e dominare, ma l’andare, tracciando un tempo sotto il segno della titolarità della scelta se essere soggetti di o soggetti a.
Si autorizza una disponibilità piena, un’apertura indifesa, che non ricopia l’ordine esistente, limitandosi a tirare avanti, ad aggiustare il tiro man mano che si procede con provvisorie mosse tampone, di natura compensatoria, che mostrano ancor più la fragilità della situazione e l’incapacità di governarla. Tutto ciò si traduce in un andare a rimorchio degli eventi, restando sempre indietro.
Non basta effettuare cambiamenti che sono meri spostamenti o tiepide aggiunte, lasciando inalterate le condizioni che hanno generato la situazione esistente. Occorrerebbe una prospettiva radicale, impraticabile da una razionalità tecnica che non è in grado di mettere in discussione se stessa, perché significherebbe negarsi: capace solo di anelare ai risultati, è miope nei confronti dei fini, esigenti un vedere che va oltre la vista.
È una curvatura della riflessione, che incrocia esplicitamente il discorso educativo.
UPAD, quale learning organisation non si è fermata a prender atto, ma si è impegnata a prender posizione, accogliendo la sfida, o le sfide, che la pandemia avanza. Ricca dell’esperienza educativa e formativa vissuta dai bambini e dagli educatori/insegnanti, nel periodo estivo, ha inteso andare oltre, chiedendosi fino a che punto questo tempo, pur nella sua drammaticità, possa presentare provocazioni significative, favorire quello sguardo rallentato sulle cose, che riabilita lo stupore, il senso della bellezza, il piacere di un sapere che ha sapore, che onora la sua matrice esistenziale, che avverte come il soggetto che conosce, conosca con tutto se stesso.
E poiché nulla si improvvisa, conviene cominciare per tempo.
Daniela Silvestri
Martedì 3 novembre, in un seminario online, si discuterà su “essere educatori al tempo del Covid-19”. Per partecipare scrivere una mail a info@upad.it