Ripartire dopo il coronavirus: intervista a Gianni Lanzinger

“L’ottimismo non è un sentimento, ma è un progetto”

Ecco la nostra intervista all’avv. Gianni Lanzinger, consigliere Fondazione Upad, con importanti considerazioni sull’impatto del COVID-19 sulla società di oggi e su quella che ci aspetta.

Qual è la sfida che noi cittadini dobbiamo raccogliere per combattere l’emergenza attuale?

La società civile è ammutolita. Forse per paura, forse per rinuncia, forse per una assorbente esperienza mediatica che ha diviso il mondo tra comunicatori e uditori, sostituendo le occasioni di autoriflessione, stupisce la debolezza della voce dell’autonomia della società. La crescita della curva di morte ed il dilagare dell’infezione – appena contenuta da straordinari sacrifici di tutti, ma soprattutto di chi combatte in prima linea negli ospedali – è un referendum quotidiano sulla (in)capacità di gestione dell’emergenza, su ritardi, improvvisazioni, occultamenti da parte di chi è al comando nelle istituzioni e nella società. La pandemia è una occasione perduta per tutti i soggetti primari della democrazia, e dunque in primo luogo, cittadini e cittadine che non hanno saputo reagire collettivamente ed anticipare o imporre le scelta di autodifesa collettiva, controllare le pratiche di salvezza. L’affidamento della strategia di contrasto alla direzione politica ed il pratico ammutolimento della base sociale, non ha risparmiato il disastro. Emblematico lo scandalo nel rilevare le morti nelle collettività di anziani. La sfida è che i cittadini, i corpi intermedi, le donne e gli uomini della cultura, dell’economia e della società, accettino in proprio di essere protagonisti, vigili e loquaci, a difesa del bene comune, quale è la salute. La difesa della vita non si delega. L’autodifesa della collettività è una necessità; se non ora, quando?

Quale società ci aspetta nel prossimo futuro?

La prima certezza sul futuro è che nessuno ci assicura l’esistenza di un futuro. La principale difesa dal Covid-19 è stata quella di non farsi trovare in nessun luogo, e dunque, di scomparire. Fino a quando? Non è esagerato parlare di catastrofe. La nostra civiltà non sopporta una pandemia ed allora bisogna pensare di cambiare il modo di essere civiltà. Nel secolo scorso da una catastrofe bellica, se ne è usciti con il riarmo revanscista e con l’ideologia fascista e nazista e quindi, con un’altra guerra. Dalla seconda catastrofe bellica se ne è usciti con la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” e con forti scelte di democrazia e di integrazione tra i popoli: l’ONU ed i trattati di Roma per un’Europa solidale: la lunga stagione delle Carte universali dei diritti sovrani. La globalizzazione virale spinge verso due scenari opposti: o la frantumazione dei rapporti tra le persone e le nazioni, oppure la costruzione di quell’umanità “planetaria”, secondo la intuizione di Ernesto Balducci e, dunque, verso una accettabile aggregazione tra le società umane che occupano – spesso fuori misura – il pianeta. Come di fronte alla crisi di democrazia, serve più  democrazia, così per fronteggiare la crisi dell’Europa serve più – e non meno – Europa, o meglio, servono più europei per una nuova stagione dello spirito di Ventotene che ha ispirato la politica delle nazioni europee nel dopoguerra. La pandemia costituisce una formidabile coazione ad una più stretta interazione tra culture, lingue, economie, nazionalità diverse e distanti.

Nel settore legato alla sua professionalità cosa accadrà?

Nessun dubbio che una professione che abbia un osservatorio privilegiato sulla società, quale quella di avvocato, si trova difronte ad un massacro fortemente selettivo. Sono colpiti soprattutto soggetti che si trovano in debolezza per età, malattia, povertà o per condizioni di subalternità sociale. Ma la pandemia ha anche smascherato l’ipocrisia del sistema del lavoro che rende sempre più forte la gerarchia del comando, sempre più deboli i mezzi di resistenza alle difficoltà. L’epidemia ha messo a nudo la precarietà esistenziale del lavoro “agile”, o “flessibile”, o “a termine”, o “a tutele (appena) crescenti”, che ha segnato l’ultima retrograda cultura riformatrice delle relazioni del lavoro. Il virus seleziona le classi deboli nello stesso modo in cui ha messo fuorigioco la parte debole nel commercio e nella finanza internazionale ed ha attaccato il sistema del Welfare e della distribuzione planetaria delle risorse, in una parola: la sicurezza delle persone. Dunque una coazione in più viene dal Covid-19: rifare il sistema dei presidi di sicurezza nel lavoro e nella società che verrà.

Pessimista o ottimista sul cambiamento che ci aspetta?

L’ottimismo non è un sentimento, ma è un progetto. E allora, non si può non essere ottimisti.